Imprese della meccanica, non abbiate paura del digitale e dell’economia circolare: è l’ora di investire

«C’è bisogno di imprenditori che non abbiano paura di investire: nelle macchine (con Industria 4.0) ma anche nell’uomo (con i suoi saperi e le sue esperienze), nell’economia circolare (purché sia redditizia), nelle reti (essere piccoli potrebbe non essere più un problema) e nei clienti. A rimanere fedele alle imprese sarà chi percepisce il valore che sta in un prodotto sostenibile. Questo momento offre all’imprenditore coraggioso una miriade di opportunità». A dirlo è Tullio Tolio, professore ordinario di Tecnologie e Sistemi di lavorazione, Sistemi integrati di produzione e Reconfigurable Manufacturing Systems alla Facoltà di Ingegneria dei Sistemi del Politecnico di Milano.

La meccanica resta un settore trainante dell’economia italiana?
Le imprese di questo comparto sono leader di Pil ed export. L’Italia vive grazie alle piccole e medie imprese della meccanica: se non ci fossero loro la nostra bilancia commerciale sarebbe in deficit. Le Pmi sono resilienti (hanno prodotti e idee e non si lasciano scoraggiare dai momenti difficili) e dinamiche. Inoltre, i Piccoli stanno dando prova di grandi capacità e il comparto ha grandi prospettive, ecco perché dobbiamo investire su questo il prima possibile e seguendo un programma a pilastri.

Non c’è tempo da perdere?
Siamo in un momento economico in cui ci sono tantissime opportunità da cogliere, a patto che si voglia rischiare. Oggi, più che mai, c’è bisogno di imprenditori veri. Imprenditori lungimiranti che sappiano pensare al futuro e che non hanno paura di affrontare i tanti cambiamenti in atto. Per loro, questo momento è fantastico.

Lei sostiene che siamo in un’epoca in cui “o si cresce o si muore”: perché?
O si gioca d’anticipo o non si esiste più perché all’alto rischio corrispondono alte opportunità per chi vuole investire. Bisogna lanciarsi in cose nuove facendo leva su alcuni pilastri: Industria 4.0 (I4.0) e Industria 5.0 (I.5.0) con il grosso tema dell’economia circolare, dell’uomo al centro, della sostenibilità, dei network tra imprese e delle piattaforme integrate.

Partiamo dall’innovazione: quale la differenza tra I4.0 e I5.0?
Industria 4.0 nasce in Germania e si basa sulla technology push, cioè sull’automazione controllata dall’Intelligenza Artificiale. Ma tutto questo non completa lo scenario, e qui interviene I5.0: bisogna porre l’uomo al centro del sistema produttivo perché la competitività la fanno le persone e la loro capacità di “fare impresa” e di risolvere i problemi con creatività. E bisogna considerare in modo esplicito la sostenibilità e l’economia circolare: questi due elementi sono enfatizzati da Industria 5.0 rispetto a Industria 4.0

Una linea sulla quale insiste da tempo l’Unione Europea, ma per alcune imprese i costi di questa trasformazione sono un deterrente.
E’ per questo che, per l’impresa, la sostenibilità deve essere redditizia. Mentre I4.0 ha una visione legata al produrre prodotti e non alla loro successiva vita; I5.0 considera la vita del prodotto e si chiede cosa poter fare per evitare che quel prodotto abbia un impatto ambientale insostenibile. Se la sostenibilità non diventerà redditizia si diffonderà con grosse difficoltà. Se da una parte questo cambiamento si realizzerà con un impianto normativo anche coercitivo, dall’altro serviranno aiuti economici. Le nuove tecnologie in evoluzione, però, porteranno a benefici economici perché tutto ciò che è risparmio – idrico, energetico e di materiali – dà vantaggi.

Per l’impresa la sostenibilità deve essere redditizia

Quindi, economia circolare?
Le Pmi hanno la capacità di reagire molto velocemente agli stimoli che ricevono, quindi saranno in grado di pensare a sistemi produttivi diversi e ai modi in cui il prodotto verrà usato una volta venduto. Le imprese devono immaginare l’uso di nuovi materiali più facilmente riciclabili o riutilizzabili. Devono immaginare processi che evitano la combinazione di materiali difficili da separare, perché il prodotto non vale più e solo per la sua funzione d’uso ma anche per le sue funzioni aggiuntive. Quelle che portano ad un risparmio energetico, per esempio. Tutto questo le Pmi lo possono fare attraverso l’abbinamento di creatività e agilità. Non dimentichiamo, poi, che sulla questione ambientale c’è una grande sensibilità soprattutto tra le generazioni più giovani e soprattutto in Italia. Quindi, chi progetta in fretta avrà un vantaggio competitivo: l’economia circolare non è l’ennesima complicazione che arriva dritta sull’impresa, ma un beneficio. Da qui nascerà un altro vantaggio: la fidelizzazione del cliente, che rimane collegato a chi sa dare valore al prodotto a fine vita a fronte dell’acquisto di uno nuovo. Non sto dicendo che è facile, ma è un’opportunità sulla quale impegnarsi.

Il vantaggio dell’economia circolare è il suo essere transettoriale?
Mette in collegamento fra loro settori diversi perché i materiali che non possono più essere usati in un comparto passano in un altro con flussi importanti di materie prime. Pensiamo alle batterie scartate dall’automotive: queste possono essere rigenerate per trovare un utilizzo nel campo delle energie alternative. Da qui, si passa alla necessità di creare nuove reti tra imprese; integrare e fare lavorare insieme settori che non si conoscono. In questo caso, i territori assumono una grande rilevanza.

Ci spiega?
Le Pmi tessono continue relazioni con i loro territori e, con inventiva e sostegni economici, potranno essere il motore di questa transizione transettoriale ponendo alla base del cambiamento quelle relazioni di fiducia che già esistono a livello locale. A patto che entrino in relazione anche con le Università e i centri di ricerca per risolvere problemi che sono al di fuori della loro area di intervento.

Nel sistema produttivo, l’uomo è un pilastro fondamentale e le Pmi sanno già come usare le sue conoscenze ed esperienze

E così si ritorna all’uomo?
Nel sistema produttivo, l’uomo è un pilastro fondamentale e le Pmi sanno già come usare le sue conoscenze ed esperienze. In molti casi, lo sanno fare più e meglio di quanto lo facciano le grosse imprese. L’uomo al centro significa che l’automazione sarà guidata e controllata dall’uomo, e non viceversa. Certo, automatizzare un processo ripetitivo e in serie – come accade nelle grandi imprese – è più facile rispetto ad una realtà piccola dove il processo si basa sulla personalizzazione del prodotto. Però, la riduzione dei costi dei robot collaborativi e la loro facilità di programmazione, e il taglio dei tempi di lavorazione, rendono l’automazione (se vogliamo, anche parziale) competitiva anche per le Pmi. Ma manca un ulteriore pilastro.

Quale?
Quello delle piattaforme software di logistica integrata, gestione integrata degli ordini e avanzamento della produzione in modo integrato, che permettono l’interazione tra le diverse imprese. Alla base di tutto questo c’è la condivisione dei dati da parte degli imprenditori per interagire in tempo reale, ma il tema è sfidante e rischioso.

Le Pmi che si uniscono sono in grado di dare le risposte tipiche della grande impresa mantenendo però intatta la loro autonomia

Anche vantaggioso, no?
La forza è data dall’insieme: essere piccoli potrebbe non essere più un problema perché le Pmi che si uniscono sono in grado di dare le risposte tipiche della grande impresa mantenendo però intatte la loro autonomia e flessibilità tipiche. E’ ciò che si definisce social manufacturing.

Dove sta il rischio?
Nella nascita di grandi piattaforme internazionali che fanno da intermediarie tra le imprese e i clienti. Broker – ciò che è accaduto lo abbiamo visto proprio durante la pandemia nel retail – che possono spiazzare le Pmi: danno la possibilità di entrare nella piattaforma a prezzi molto bassi, ma i margini si riducono e si perde il contatto con i propri clienti. Ecco perché siamo in un momento in cui stare fermi non premia.