Formazione permanente: una necessità per i senior in azienda

Formazione permanente

«Il rischio di fratture interne è abbastanza concreto, quando nel team collaborano persone di età così differenti». Secondo il report La formazione nelle imprese in Italia dell’Istat diffuso a fine 2022, il 68,9% delle aziende con almeno 10 addetti ha svolto attività di reskilling professionale nel 2020, tra le grandi società la quota supera il 90%. Sul territorio, vincono il Nord-Est (74,5%) e il Nord-Ovest (72,3%) e i settori dei servizi finanziari e assicurativi, seguiti da utilities, aziende meccaniche, costruzioni, telecomunicazioni, editoria, informatica. Sotto la media nazionale carta e stampa, ristorazione, tessile e abbigliamento.

La modalità più diffusa per la formazione è di tipo frontale (59,5%), ma emergono i corsi a distanza in un terzo dei casi. Tra gli ostacoli segnalati al percorso di aggiornamento professionale: i costi elevati, la mancanza di tempo, di risorse finanziarie e le difficoltà tecniche nellorganizzazione.

LA SITUAZIONE NELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

Questa la panoramica nazionale. Ma cosa succede, nel concreto, nelle realtà delle piccole-medie imprese? Quanto è sentito il tema della formazione e quanto viene messo in pratica in modo “permanente”, soprattutto per allineare i nuovi ingressi, ampliare le soft skills delle seniority già presenti e colmare l’inevitabile gap generazionale?

Tiziano Botteri è esperto di formazione professionale e manageriale, co-founder di Clouds&Training e autore di S-Age Management (Egea), saggio sulle ripercussioni dei cambiamenti demografici allinterno dei processi produttivi. Tra i vari aspetti analizzati nel libro c’è il tema dell’invecchiamento aziendale che va di pari passo con quello dell’apprendimento continuo: due nuove prospettive che i manager devono prendere in considerazione in un contesto in cui accanto ai cosiddetti “boomer” si siedono già oggi parecchi Millennials e si stanno facendo largo i ventenni della Generazione Z.

LO STILE DELLA GENERAZIONE Z

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«Il rischio di fratture interne è abbastanza concreto, quando nel team collaborano persone di età così differenti» spiega Botteri. «La Generazione Z, per esempio, ha aspettative di lavoro molto diverse: oltre il 55% ha un’istruzione universitaria, è attenta alle dinamiche come inclusione e responsabilità sociale, non apprezza gli stili autoritari ma quelli comunitari, predilige il lavorare e fare le cose insieme e non l’isolamento. Alle leadership costruite sul one-man-show i giovani contrappongono una mentalità imprenditoriale da startuppers, proprio per evitare di trovarsi di fronte a organizzazioni che vedono come superate. Apprezzano una comunicazione autentica, che dia loro il senso di quello che fanno e non accettano a volte un lavoro troppo parcellizzato».

Davanti a una generazione così diversa nelle attese professionali, è comprensibile quindi immaginare un livello di incomunicabilità alta con i senior, ovvero dipendenti che hanno maturato una lunga anzianità all’interno dell’impresa, con competenze solide ma da aggiornare. Entrati nel mondo del lavoro con il mito del posto fisso, della dedizione al titolare, della gerarchia interna molto rigida, i 50-60enni rischiano di rimanere in un limbo se non adeguatamente “riskillati”. Come sottolinea Botteri, nel 2050 la popolazione italiana sarà sotto i 55 milioni: oggi siamo circa 59 milioni. Nell’arco di 25 anni la fascia di individui attivi rispetto ai non-attivi passerà da 3 a 2 a 1 a 1. «Un cambio molto radicale che deve essere preso in considerazione dalle politiche di hr management sulle quali l’Italia si è un po’ arrestata» spiega l’esperto. «Da una ricerca dell’Osservatorio del Politecnico di Milano sul periodo 2018-2020 nel nostro Paese solo un’azienda su 5 fa politiche sistematiche di organizzazione delle risorse interne, e non è un dato confortante».

MAPPARE IL QUADRO GENERAZIONALE

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Se il tempo trascorso in azienda dai dipendenti si allunga, è necessaria quindi una visione di lungo periodo, una long term employability. «Le Pmi, così come le grandi imprese, dovrebbero chiedersi: qual è oggi la situazione generazionale all’interno dell’azienda?» spiega Tiziano Botteri. «Per scoprirlo è utile ricorrere a un disegno a piramide per mappare sia le età sia le competenze presenti, e delineare quali saranno le necessità future. È un lavoro che nelle Pmi si può fare con un certo agio perché non parliamo di aziende con centinaia di persone ma con decine, anche se sarebbe un mestiere tipicamente da risorse umane: una figura che nelle piccole realtà molto spesso manca o viene sostituita dal direttore finanziario-amministrativo che fa anche il direttore del personale, e quindi spesso ha un occhio solo ai numeri e meno alle competenze interne allazienda, così come alla loro formazione, alle attività di reskilling e di upskilling».

Agire sul reverse mentoring può essere una buona strategia. Una figura senior può aiutare un giovane che entra adesso nell’impresa a lavorare con una mentalità strategica e non solo sul presente. Di contro, le nuove leve possono insegnare nuovi linguaggi ai boomer e la capacità di lavorare in sinergia con la tecnologia.

VALORIZZARE LE PERSONE

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«Le racconto un aneddoto molto italiano» continua l’esperto. «Sono andato di recente nel Nord-Est per partecipare a un convegno sulla transizione della figura imprenditoriale verso quella manageriale. Su una cinquantina di persone presenti, ne ho trovate una trentina molto restie a toccare questo elemento, una decina in bilico, un’altra decina che erano già illuminate grazie alla presenza di figli che voleva entrare in azienda e avevano già portato una mentalità nuova, un paio persino con un master ad Harvard. Questo per far capire che servono sempre stimoli nelle imprese, ci vuole qualcuno nel management che cominci ad avere un occhio non solo agli aspetti di business, tecnologici e produttivi ma anche alla valorizzazione delle persone».

Sempre secondo l’indagine Istat, un terzo delle imprese dichiara infatti che una parte dei propri addetti non ha le competenze adeguate allo svolgimento del proprio lavoro secondo il livello richiesto: il 32% vorrebbe migliorare le abilità tecnico-operative del personale così come le competenze trasversali (31,2%) il problem solving (29,8%), le soft skills manageriali e gestionali (23,3%). L’Istat rileva inoltre che, «nonostante la pandemia abbia accelerato la transizione digitale, le imprese scontano un deficit in tema di competenze informatiche professionali (26,1%) il cui aggiornamento è necessario per tutte» si legge nel report.