Continuità generazionale, il 2021 sarà l’anno della svolta: aziende a confronto con gli esperti Artser

Continuità generazionale sì, ma come? Ne parliamo con gli esperti mercoledì 30 giugno in occasione del quinto appuntamento con i focus group del ciclo Q&A. Ritrovo sempre sulla piattaforma Zoom con un numero ristretto di aziende (prenotati subito!) per discutere insieme di un tema caldissimo.

Da sempre, infatti, in Italia, la continuità (o transizione) generazionale rappresenta uno dei momenti più delicati per la vita di un’azienda. Anche perché l’85% delle imprese è di stampo familiare. Quindi meglio parlarne e farlo il primo anno. Spiega Fabio Quarato, Lecturer del dipartimento di Management e tecnologia dell’università Bocconi e coordinatore dell’osservatorio Aub: «Negli ultimi anni abbiamo notato una maggior presa di coscienza degli imprenditori sulla continuità generazionale. In quest’ultimo anno siamo un po’ in controtendenza perché, come avvenuto con la crisi del 2008, gli imprenditori in carica tendono a rimanere in sella per governare il momento di difficoltà». Ma, una volta placata la tempesta della pandemia «ci aspettiamo un’accelerazione dei fenomeni di avvicendamento alla guida delle imprese».

PREPARARE IL TERRENO
In generale, comunque, sono due le variabili da tenere in considerazione quando il titolare decide di passare la mano ai giovani. Innanzitutto «bisogna capire se gli eredi siano interessati e se hanno le capacità per portare avanti il percorso aziendale. Inoltre se c’è un figlio solo, non subentrano problemi di passaggio generazionale, ma il successore deve essere interessato e in grado di compiere il subentro, altrimenti è meglio vendere o affidarsi a persone esterne. Nel caso di più figli, ci sono più opzioni, ma il problema sorge nel caso in cui si apra un conflitto sull’ambizione alla successione». Di certo, prima, va preparato il terreno.

E, in tal senso, la vecchia gavetta in azienda non basta più: «Questo percorso – aggiunge Quarato – ha avuto grande successo nei decenni passati ma, ora, è superato. Ai figli di imprenditori, quindi, suggerisco un’esperienza all’estero, per poi eventualmente rientrare con un bagaglio di conoscenze più ampio e in grado di affrontare un mondo sempre più complesso e internazionalizzato». Sottolineando come la terza generazione sia quella mediamente più a rischio per il futuro di un’azienda, anche «se esistono casi in cui i nipoti del fondatore hanno dato uno slancio di internazionalizzazione», il consiglio è quindi quello di aprire le porte a figure esterne all’azienda, per garantire la continuità anche quando cambia la guida: «Su questo fronte – afferma ancora il docente della Bocconi – il confronto con altri Paesi come la Germania e la Francia è impietoso. In Italia il trend sta cambiando, ma c’è ancora molta strada da fare». Insomma, vige ancora il concetto in base al quale gli affari di famiglia devono rimanere tali, senza ingressi esterni. E così anche strumenti come il trust, i comitati di famiglia o altri simili «stanno avendo bassissima diffusione. Mentre è positivo che, perlomeno, si stiano sviluppando di più delle scritture private familiari».

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