L’influencer perfetto per una Pmi? «Cercatelo in casa, è chi lavora per voi»

Dipendente influencerLa figura del testimonial è vecchia come la pubblicità stessa. E ha attraversato tutti i mezzi di comunicazione, per approdare al web e soprattutto ai social, assumendo le sembianze dell’influencer. Cioè chi, grazie al grande seguito acquisito nel tempo, consente ad aziende grandi o piccole di raggiungere quella massa di potenziali consumatori rappresentata dai propri follower.

Ma qualcosa sta cambiando, sotto i nostri occhi: «Siamo davanti a un tema caldo – afferma Paolo Iabichino, esperto dei linguaggi del web, che al tema degli influencer ha dedicato un intero capitolo del suo “Scripta Volant” (Codice Edizioni) – perché il giochino dei macro-influencer si è in qualche modo rotto. Questi ragazzi hanno perso credibilità, il che ha costretto le aziende a ripensare il modello».

D’altronde, riferisce Iabichino nella sua pubblicazione, recenti ricerche evidenziano un vero e proprio calo di credibilità dei cosiddetti influencer verso il pubblico dei millennial, che tuttavia «continua a decretare un largo seguito alle star della rete più seguite. Seguono cioè i loro contenuti, ma se ne allontanano quando questi sono infarciti da messaggi pubblicitari». L’influencer medio ha un buon seguito sui propri canali, «ma ha costruito la propria reputazione proprio grazie alla bontà neutrale dei contenuti. Nel momento in cui questi vengono periodicamente accompagnati da testimonianze pubblicitarie non è difficile pensare che possa in qualche modo venir meno una certa credibilità. Il punto è che la cosiddetta fan base continua a seguire il beniamino di turno, semplicemente ha imparato a ignorare il contenuto promozionale».

CI SI FIDA DI CHI LAVORA NELL’IMPRESA
Non sorprende, insomma, la tendenza crescente legata all’utilizzo da un lato dei cosiddetti micro-influencer, cioè soggetti che pur senza smuovere le grandi masse hanno assunto una rilevanza in un settore specifico, dall’altro degli stessi dipendenti o collaboratori per veicolare l’immagine della propria azienda. In principio, quindi, futuro i vip, poi si passò agli imprenditori, ora si approda alla linfa vitale stessa delle imprese: i propri lavoratori. In tal senso, un dato rilanciato nei mesi scorsi da Forbes sottolinea come ben l’82% dei consumatori di un preciso brand si fidi maggiormente di un testimonial interno piuttosto che “calato dall’alto”.

«Si tratta di due argomenti da affrontare separatamente – precisa Iabichino – il micro-influencer è un tema a mio modo di vedere rilevante nella misura in cui l’azienda si trova a sfruttarne la componente editoriale e verticale. Diverso il coinvolgimento della comunità interna, il cosiddetto employer branding. Che può essere certo visto in una logica di influencing, ma il rischio è quello di strumentalizzare un coinvolgimento che invece dovrebbe essere spontaneo».

LA COMPONENTE UMANISTICA DELLE IMPRESE
Il compito dell’impresa, perciò, deve essere quello di creare le premesse affinché il senso di partecipazione del dipendente nasca come virtuosa conseguenza: «Una forma di orgoglio che ritengo possa essere efficace se comunicata in maniera naturale, e non attraverso programmi scritti a tavolino, che finiscono spesso per snaturare la produzione dei contenuti».

I valori prima di tutto, per una narrazione che possa essere reale: «E per le realtà artigiane questo è ancora più valido. Usando il linguaggio dello storytelling, nel lavoro artigianale ci sono componenti poetiche evidenti. Stiamo assistendo a un ritorno di fiamma verso la componente umanistica delle aziende». L’anima stessa del sentire artigiano, in sintesi, come elemento distintivo per la valorizzazione del proprio brand. Anche sui social.